(Tratto da Plinio il Giovane, Lettere, a cura di Giovanni Bellardi, Bologna, Zanichelli, 1991, libro X)
“Lettera 96
C. Plinio all’imperatore Traiano
È mio costume, o Signore, portare a tua conoscenza tutte le questioni che mi lasciano perplesso, poiché nessuno meglio di te potrebbe o guidarmi nelle mie esitazioni o illuminarmi nella mia ignoranza.
Non sono mai stato presente ad alcun processo dei cristiani e perciò ignoro che cosa solitamente, ed entro quali limiti, si sottopone a inchiesta o si colpisce con una penna. E sono rimasto alquanto incerto se si debba fare qualche differenza tenendo conto dell’età o se, per quanto fanciulli, non si debbano distinguere affatto da quelli in età più avanzata; se si debba concedere il perdono a chi si pente oppure se, a chi sia stato sicuramente cristiano, non giovi aver cessato di esserlo; se si debba punire il nome di cristiano in sé o per sé, pur in assenza delle loro colpe infamanti, o soltanto le infamie che a quel nome sono associate.
Nel frattempo, questa è stata la via da me seguita nei riguardi di coloro che mi venivano denunciati come cristiani: ho chiesto loro se erano cristiani, ripetendo una seconda e una terza volta la stessa domanda, aggiungendo la minaccia del supplizio a chi confessava di esserlo: e al supplizio ho fatto condurre gli ostinati nella loro professione, ritenendo senza alcuna esitazione che, qualunque cosa fosse questo cristianesimo di cui si confessavano seguaci, quell’ostinazione e caparbietà inflessibile andasse senz’altro punita. Tra i presi da simile pazzia ce n’erano altri che, in quanto cittadini romani, ho messo in nota per farli tradurre a Roma. In seguito, proprio come conseguenza dei procedimenti giudiziari, ed è cosa solita, aumentarono le denunzie e mi si presentarono parecchi altri casi.
Si è resa di dominio pubblico un’accusa anonima con i nomi di molte persone; io ho ritenuto opportuno mandare assolti quelli che negavano di essere o di essere stati cristiani quando, mentre pronunciavo io per primo la formula, invocavano gli dei e facevano atto di adorazione alla tua statua, che proprio a questo scopo avevo fatto portare con le immagini dei numi, con l’offerta di incenso e vino, e per di più bestemmiavano Cristo: tutti atti cui è impossibile, a quel che mi si dice, costringere quelli che sono veramente cristiani. Altri, il cui nome era stato fatto da un delatore, affermarono di essere cristiani e subito dopo lo negarono: lo erano sì stati, ma avevano cessato di esserlo, certuni già da tre anni, cert’altri da più ancora, qualcuno addirittura da venti. Anche costoro adorarono tutti sia la tua statua che le immagini degli dei, e bestemmiarono Cristo.
Affermavano d’altra parte che la loro colpa o il loro errore si riduceva essenzialmente alla consuetudine di riunirsi in un giorno determinato prima dell’alba per cantare alternativamente fra loro un inno in onore di Cristo come se fosse un dio, e di impegnarsi con solenne giuramento non già a compiere qualche misfatto, ma a non commettere furti, rapine, adulteri, a non tradire la parola data, a non rifiutare di restituire, se richiesti, una cosa ricevuta in custodia. Dopo aver compiuto tali cerimonie, abitualmente se ne andavano per poi riunirsi di nuovo per prendere del cibo, ordinario, comunque, e innocente: una pratica a ogni modo abbandonata dopo il mio editto con il quale, secondo le tue istruzioni, avevo proibito le associazioni politiche. Tutto questo mi indusse a ritenere ancora più necessario di sottoporre a interrogatorio, anche mediante la tortura, due schiave, chiamate diaconesse, per scoprire che vi fosse di vero: non sono riuscito a trovare altro che una perversa e sfrenata superstizione. Di conseguenza, ho rinviato l’inchiesta per ricorrere al tuo consiglio, dato che si tratta a mio avviso di un problema che merita che io ti consulti per il gran numero degli accusati: ché sono molti quelli che vengono e verranno posti sotto processo, di ogni età, di ogni condizione sociale e finanche di ambo i sessi. Il contagio di questa superstizione si è diffuso non solo nelle città ma anche nei villaggi e nelle campagne, ma a mio avviso si può arrestarlo e porvi rimedio. Si sa comunque con certezza che si è ripreso a frequentare i templi, già quasi abbandonati, a celebrare i consueti riti, da lungo tempo interrotti, e a vendere la carne delle vittime, di cui finora assai di rado si riusciva a trovare un compratore. Non è di conseguenza difficile arguire che un gran numero di persone potrebbe essere tratta dall’errore, qualora si concedesse loro la possibilità di pentirsi.”