(Tratto da Salviano di Marsiglia, Il governo di Dio, a cura di Silvano Cola, Città Nuova Editrice, Roma, 1994, libro V)
“VI.24 – Adesso parlo dei Bacaudi. Ridotti in miseria, oppressi, ammazzati da giudici perversi e sanguinari, dopo aver perso il diritto alla libertà romana hanno perso anche il prestigioso nome di romani. Li si fa responsabili della loro propria infelicità, li colpevolizziamo per aver rinunciato nella loro sventura al proprio nome, gli facciamo colpa di un nome che noi stessi gli abbiamo affibbiato! Li tacciamo di ribelli, li chiamiamo gente screditata, quando noi stessi li abbiamo spinti sulla strada del crimine!
VI.25 – Per quali altre circostanze sono infatti diventati Bacaudi, se non per colpa delle nostre ingiustizie, della disonestà dei giudici, delle confische e delle ruberie da parte di coloro che, con la scusa dell’esazione e delle imposte, hanno dirottato queste imposte a profitto personale e hanno fatto delle tasse straordinarie un bottino privato? Individui che si sono comportati come bestie feroci: invece di amministrare i cittadini delle proprie circoscrizioni, li hanno spolpati; si sono pasciuti non solo dei loro beni come normalmente fanno i ladri, ma anche del loro sangue dopo averli ammazzati.
VI.26 – È accaduto pertanto che quegli uomini, strangolati e soffocati da giudici ladri, si sono come ridotti a una condizione di barbarie, poiché non gli si permetteva di essere Romani. Si sono così rassegnati a essere ciò che non erano, poiché non gli si permetteva di continuare ad essere ciò che erano stati. Sono stati costretti a salvarsi almeno la vita, visto che la loro libertà era ormai completamente perduta.
Ma non sta accadendo anche oggi la stessa cosa di allora? Non si costringe forse a diventare Bacaudi quelli che ancora non lo sono? Se si tiene conto della violenza e delle ingiustizie, li si spinge a volerlo essere; è solo la debolezza che impedisce loro di diventarlo. Si trovano quindi a essere come prigionieri oppressi da un giogo nemico: non per scelta sopportano questo supplizio, ma per necessità. Interiormente desiderano la libertà, eppure si rassegnano alla peggiore schiavitù.
VII.27 – Questo, di fatto, è quanto accade a tutte le persone più indifese. Un’unica soluzione le forza a subire due costrizioni opposte: la violenza più forte è la loro decisa aspirazione alla libertà, ma questa stessa violenza non permette loro di realizzare questo impellente desiderio.
Ma può anche darsi che si dia la colpa a queste persone di avere quella aspirazione, quando invece il loro desiderio maggiore sarebbe proprio di non essere costretti ad averla! Non è forse, la loro aspirazione, la loro peggior disgrazia? Con gente del genere si sarebbe fatto molto meglio a non spingerli ad averla!
VIII.28. – Ma quale altro desiderio potrebbero avere quei poveretti che subiscono un martellante, o meglio ancora, incessante depauperamento a causa delle imposte? Sono sempre sotto la minaccia di pesanti e continue esazioni, al punto da abbandonare le proprie case per evitare di esservi spremuti e da autocondannarsi all’esilio per sfuggire alle penalità! Trovano più accomodanti i nemici che gli esattori, e i fatti sono lì a dimostrarlo: vanno dai nemici per non affrontare quel sistema violento di esazione! Certo, per quanto duro e inumano sia il sistema, sarebbe comunque meno pesante e amaro se fossero tutti quanti a subirlo in egual misura e assieme. La cosa più vergognosa e deprimente è che non tutti concorrono all’onere pubblico e che, anzi, le imposte dei ricchi gravano sui poveracci, così che sono i più malandati a portare il peso dei più robusti. E se non riescono a farcela, l’unico motivo è che per quei poveracci il peso da portare è al di sopra delle loro possibilità.”