(Tratto da Giorgio Mario Manzini, Qualche riflessione sulla Satira dei Mestieri (Egitto, regno medio), in Accademia roveretana degli Agiati, volume IX, numero A, anno 264 (2014), pp. 69-107)
“La satira dei mestieri
Qui inizia l’insegnamento che un uomo di Zaru, conosciuto come Kheti figlio di Duauf, impartiva a suo figlio di nome Pepi quando, navigando sul fiume verso il Palazzo, lo accompagnava alla Scuola di scrittura frequentata dai figli dei funzionari di tale Palazzo. Gli disse:
Ho avuto modo di osservare quelli che sono soggetti a (ricevere) bastonate. Tu, applicati alla scrittura! Ho osservato quelli che devono sottostare all’obbligo di faticare. Dammi retta: non c’è nulla di meglio della scrittura; essa è come una barca sull’acqua.
Leggi la conclusione del Libro di Kemyt e vi troverai questa massima: ‘Lo scrivano (che fa il suo lavoro) in un luogo qualsiasi del Palazzo, non vi soffre indigenza’. Chi esegue le disposizioni altrui, non può trarne soddisfazione. Non vedo (quindi) nessun lavoro paragonabile a questo dello scrivano, e sul quale si possano esprimere identici apprezzamenti. Desidero far sì che tu voglia bene ai (testi) scritti più che a tua madre e desidero anche che la loro bellezza si rifletta sul tuo viso. Essere scrivano è un impiego superiore a qualunque altro; sulla terra non ce n’è uno uguale. Quando (lo scrivano) è ancora un ragazzo, già lo si saluta con rispetto e gli si affidano compiti (importanti). Prima ancora di divenire adulto, già indossa il gonnellino. Mai ho saputo, né di uno scultore come messaggero, né di un orefice inviato (in missioni richiedenti scrupolosità).
Ho visto il fabbro ferraio al lavoro, presso l’imboccatura della fucina. Le sue dita sono come artigli di coccodrillo, e puzza peggio delle uova del pesce.
Il legnaiolo che usa la sgorbia è più sfinito di un bracciante agricolo; il suo campo è il legname, l’aratro è la sua sgorbia, la sua fatica non ha fine. Si affanna più di quanto glielo permettano le sue forze, e tuttavia durante la notte a casa sua resta acceso il lume.
Lo scalpellino intaglia con il cesello qualsiasi sorta di dura pietra, a quando ha terminato di ritagliare un occhio ha le braccia esauste e ha perduto ogni forza. Resta lì seduto fino al tramonto, con le ginocchia ripiegate e la schiena curva.
Il barbiere s’indugia a radere clienti fino a tarda notte. Deve portarsi avanti da solo, decidere come disporre il suo posto di lavoro, correre da un angolo all’altro, da un vicolo all’altro per imbattersi con qualcheduno da tosare. Le sue braccia non riescono a stare ferme, poiché devono riempirgli la pancia: come l’ape, che si alimenta solo nella misura consentitale dal proprio lavoro.
Il cestaio ha da spostarsi qua e là (per il Delta) se vuole raccogliersi gli steli delle canne. Dopo che si è indaffarato più di quanto possano fare le sue braccia, le zanzare lo hanno punzecchiato, le mosche lo hanno succhiato ed è rimasto totalmente spossato.
Il vasaio sta sottoterra ancora da vivo. Razzola nella melma più dei porci, per aver terraglia da cuocere. I suoi vestiti sono impregnati di fango, la cintura gli si è ridotta a pezzi. L’aria che gli entra dal naso è quella stessa che esce dal forno. Con i piedi schiaccia una massa da cui egli stesso resta schiacciato. Estrae terra dai cortili di tutte le case e va qua e là nei luoghi pubblici (per vedere se ne trova).
Il muratore che costruisce i muri? Il suo dorso brucia per le frustate che riceve. Sempre alle intemperie, oppresso dal vento, non ha (la protezione nemmeno di) una tenda. Per mutande indossa una cordicella intrecciata che gli pende da dietro. Le braccia non gli si vedono, tutte ricoperte come sono da ogni specie di macchia. Quando mangia del pane è il momento stesso in cui si lava le dita.
Anche per il carpentiere non c’è altro che miseria: in una costruzione di dieci cubiti per sei, spende un mese cercando di sistemare le travi. Finito tutto questo lavoro, il cibo che porta a casa non (è sufficiente) per i figli.
L’ortolano porta i secchi d’acqua due per volta, con un bilanciere sulle spalle, e la schiena gli si incurva. Sotto il peso, la nuca gli diventa tumefatta in modo ripugnante. Al mattino innaffia gli alberi e passa il pomeriggio chino sulle verdure benché, sotto il sole meridiano, abbia già perdute le forze intento agli (altri) ortaggi. Con questa identica dedizione, più che ogni altro lavoratore, passa tutti i giorni fino a che muore.
L’agricoltore eleva lamentazioni più alte di quelle di una gallina colorata; il suo grido stride peggio (di quello) dei corvi. Le dita le ha gonfie, e puzzano tremendamente. È privo di iniziativa ed è stato censito fra gli abitanti del Delta come pezzente. Sta bene, se uno può trovarsi bene quando è circondato da leoni. Al tornarsene a casa alla sera, è spossato per il cammino percorso.
Il tessitore rimane chiuso nel suo locale, in una postura ancor più scomoda di quella di una donna partoriente; le ginocchia ripiegate contro lo stomaco lo soffocano. Se sciupa una giornata senza tessere, gli appioppano cinquanta bastonate. Deve dare una mancia al suo vigilante, per ottenere di uscire un momento a prender aria.
Il fabbricante di frecce s’imbatte in innumerevoli difficoltà quando esce dall’abitato. Quanto gli costa il suo asino ha maggior valore dell’utile che gli dà. È (anche) molto quello che deve pagare ai contadini affinché gli indichino la strada (giusta). Quando, a notte fonda, torna a casa, non ha più fiato.
Il mercante va a compiere il suo itinerario di affari, dopo di avere trasmesso i propri averi ai figli, temendo i leoni e gli asiatici. Ritrova sé stesso (solamente) al ritorno in Egitto. Quando rientra in casa nell’oscurità, non si raccapezza affatto. (D’altra parte), sia che abiti sotto una tenda di tela oppure tra pareti di mattoni, il suo ritorno non motiva gioia alcuna.
Le dita del fuochista sono sudicie; trasuda un odore cadaverico; ha gli occhi arrossati per l’intensità del fumo. Non gli è possibile togliersi di dosso il sudiciume. Trascorre il giorno tagliando canne e abbandona in un angolo i vestiti.
Il conciapelli, la cui sorte è realmente miserrima, non lo vedi se non reclinato sul bordo di una tinozza per conciare il cuoio. Sempre gli manca qualcosa, e il suo destino è quello di un cadavere: (infatti), tutto quello che possiede, e in cui possa ficcare i denti, è il cuoio che ha.
Il lavandaio lava (i panni) sulla riva di un canale, e il coccodrillo gli sta accanto. ‘Padre, esci dal filo dell’acqua’ gli dicono il figlio e la figlia. Il lavoro non è che gli renda tanto. Il cibo gli si mescola con la sporcizia. Nessuna parte del corpo l’ha pulita, fintantoché abbia a che fare con sottane femminili (ancora) sudicie di mestruo. Si lamenta, passando il giorno attaccato all’asse da lavare. Gli si dice: ‘(Ecco) panni sporchi per te!’.
L’uccellatore ha molto daffare cercando volatili. Quando gli stormi di uccelli gli volano di sopra, si mette a dire ‘Se avessi una rete!’. Senonché, siccome la divinità non permette che l’abbia, resta disgustato per i limiti frapposti al suo desiderio.
E il pescatore? Il suo mestiere è miserabile senza paragoni. Lavora in mezzo al fiume insieme ai coccodrilli. Quando giunge il momento di contare (i pesci pescati), allora comincia la lagna. Quando è tutto impaurito, non (è lui che) dice: ‘Ecco (lì) il coccodrillo’? Quando esce dall’acqua del fiume, è (ancora) intontito per il potere della divinità.
Vedi bene: non c’è un mestiere dove non ti tocchi startene sotto gli ordini di qualcuno, eccetto (quello del)lo scrivano. È lui, che distribuisce i propri compiti. Se conosci la scrittura, tutto procederà benissimo per te. Vedi: quanto a te, sei di origini basse (e popolane), (ma) nessuno dirà di tale essere umano che è (soltanto un) contadino.
Rifletti su quello che sono venuto dicendoti mentre venivamo al Palazzo. Te l’ho detto per l’affetto che provo verso di te. Un (solo) giorno nella scuola farà il tuo bene, in quanto serve per l’eternità: il suo risultato è (come una) pietra.”