(tratto da Sallustio, La guerra di Giugurta, a cura di Lidia Storoni Mazzolani, Milano, Rizzoli, 1976, libro 85)
“Mi avete affidato la guerra contro Giugurta, i nobili però l’hanno in dispetto. Giudicate nella vostra coscienza, vi prego, se sarebbe meglio togliermi questo incarico e affidarlo ad altri, magari a un nobile d’antico lignaggio, carico di ritratti d’antenati ma digiuno di scienza militare, sicché, quando si troverà sbalzato al comando d’una impresa ardua come questa, si mostri incerto, smarrito, e finisca per assumere uno del popolo a insegnargli il mestiere: così il più delle volte avviene che l’uomo al quale è stato conferito il comando vada a cercarne un altro che comandi a lui.
Mi risulta di altri, Quiriti, che, una volta eletti consoli, si sono immersi nella lettura delle storie dei loro avi e di trattati di guerra greci. È gente che incomincia dalla coda, perché prima bisogna esser eletti e poi esercitare il potere, ma il mestiere lo si deve conoscere prima dell’elezione.
E ora, Quiriti, paragonate me, un uomo nuovo, con la superbia di costoro: le cose che quelli sanno attraverso i libri o per sentito dire, io le ho viste con i miei occhi o vi ho preso parte; ciò che quelli hanno imparato leggendo io ho sperimentato con la pratica delle armi. Giudicate voi stessi se valgono più le parole o i fatti: loro guardano dall’alto al basso le mie modeste origini, io la loro inettitudine; loro mi fanno una colpa della mia condizione, io delle loro infamie. La natura umana, a mio modo di vedere, è la stessa e identica per tutti gli uomini e il più nobile è il più valoroso, chiunque esso sia. E ora, se si potesse domandare al padre di Albino o di Bestia se avrebbero preferito mettere al mondo me o loro, che cosa credete che risponderebbero? Il migliore! Ché se poi costoro si sentono in diritto di disprezzarmi, facciano lo stesso con i loro antenati: anche quelli, come faccio io, hanno dato inizio alla nobiltà con il valore.
Provano invidia per il titolo che m’è stato conferito: perché non mi invidiano le fatiche, la rettitudine, i pericoli? Con questi soli mezzi l’ho conquistato: questi depravati passano la vita come se avessero in dispregio i titoli che è in vostro potere concedere, però li reclamano, quasi che avessero condotto un’esistenza esemplare. Ma se sperano di ottenere due cose che non vanno insieme, i piaceri dell’ozio e la ricompensa del merito, si sbagliano di grosso! Quando poi prendono la parola nelle assemblee o in senato, non la finiscono mai di esaltare le nobili imprese degli antenati e, rievocando quelle azioni gloriose, si lusingano di ricavarne lustro. Ma invece accade il contrario: tanto più fu nobile la vita di quelli, tanto più fa vergogna la dappocaggine di questi. Poiché è così: per i discendenti, la gloria degli antenati è come un lume, non lascia all’oscuro né le buone azioni né le cattive.
Io, un lume del genere non ce l’ho, cittadini, lo riconosco. Ma ho qualcosa che mi fa molto più onore, posso parlare di azioni compiute da me; vedete dunque come ragionano male: l’onore che pretendono per sé in base a meriti altrui, lo negano a me che posso addurre i miei propri; e fanno così perché a me mancano i ritratti nell’atrio della casa, perché la mia nobiltà è recente. Ma è preferibile averla ottenuta con le proprie forze anziché degradare quella che si è ricevuta in eredità.
Se ora volessero rispondermi, i loro discorsi, lo so bene, sarebbero eloquenti, ben costruiti; per l’alto onore che m’avete conferito, essi non tralasciano un’occasione per inveire contro di me e contro di voi, ovunque si trovino, ed è per questo che non ho voluto tacere: affinché non mi si fraintenda e la mia moderazione non sia presa per ammissione di colpa. Per quel che mi riguarda, sono più che sicuro che nessun discorso può farmi danno: se dicono il vero non possono far altro che lodarmi, se mentono la mia vita, i miei costumi sono là per smentirli. Ma dato che se la prendono anche con voi, perché m’avete concesso la carica più alta e m’avete affidato la più ardua missione, considerate attentamente se sia il caso di tornare su questa decisione. Per ispirare la vostra fiducia, io non posso esibire ritratti, trionfi, consolati dei miei avi; ma, se c’è bisogno, lance, vessilli, decorazioni al merito e altre ricompense al valor militare; e inoltre le mie cicatrici, tutte sul petto. Son questi i miei ritratti, la mia nobiltà: essa non m’è stata trasmessa, come a quelli la loro, ma me lo sono guadagnata a furia di fatiche e di rischi.
Io non so esprimermi con arte; non me ne curo. Il valore lo si vede abbastanza da solo. Loro sì hanno bisogno di artifizi per mascherare con belle parole le loro turpitudini; e non ho neppure studiato le lettere greche: non m’interessava apprenderle, dato che non sono servite a instillare forza morale nella coscienza di quei sapienti. Ma conosco a fondo le cose che sono utili allo Stato: dare addosso al nemico, difendere un presidio, aver paura d’una cosa sola, il disonore; sopportare i rigori dell’inverno e il caldo d’estate, dormire per terra, resistere alle privazioni e alla fatica: sono questi i principî che impartirò ai miei uomini. E non li terrò a stecchetto riservando a me un trattamento da signore, né mi farò un vanto delle loro fatiche: così deve comportarsi chi è sollecito del bene della patria, chi sa che gli uomini a cui comanda sono cittadini, ché se io mi tenessi al sicuro tra gli agi e costringessi i soldati al chiodo, a furia di punizioni, non mi comporterei da comandante, ma da padrone. Uniformandosi a tali norme, gli avi nostri hanno ricoperto di gloria se stessi e la Repubblica.
I nobili si fanno vanto di quei magnanimi, ma si discostano da essi nella condotta, e disprezzano noi che invece ne siamo emuli ed esigono da voi le cariche non perché le meritano ma come se fossero dovute.
Ma, nella loro sfrenata superbia, essi sbagliano di grosso: gli antenati hanno lasciato loro ciò che si può lasciare, e cioè denaro, ritratti, nomi illustri; ma non le doti dell’animo, ché non avrebbero potuto: poiché la virtù è cosa che non si può donare né riceverla da altri.
Vanno dicendo che io sono rozzo, che non conosco i modi cortesi, che quando faccio inviti non so disporre la tavola, non ho un buffone né ho un cuoco che costa più caro d’un fattore; ebbene, lo riconosco con piacere, Quiriti. Ho imparato da mio padre e da altri uomini integerrimi che alle donne si addice la raffinatezza, agli uomini il lavoro e che alle persone di coscienza serve più il nome onorato che il denaro, più le armi che le suppellettili: poiché sono le armi che costituiscono il loro migliore ornamento.”