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Circe

(Tratto da Omero, Odissea, a cura di Giuseppe Tonna, Milano, Garzanti, 1974, libro X)

“Trovarono nelle valli il palazzo di Circe, costruito con pietre lisce, in un luogo isolato. E intorno ad esso c’erano lupi di montagna e leoni che lei aveva stregato, dando loro droghe maligne. E quelli non si avventarono contro gli uomini, ma dimenando le lunghe code si rizzarono sulle zampe.

Come quando intorno al padrone che viene dal banchetto, scodinzolano i cani, ché sempre porta ghiottonerie: così intorno a loro agitavano la coda i lupi di forte unghia e i leoni. Ed essi ebbero paura a vedere i bestioni terribili.

Si fermarono nell’atrio della dea dalle belle chiome. Sentivano Circe cantare dentro con voce soave, mentre tesseva una tela grande, immortale, come sono i lavori delle dee, sottili e splendenti e pieni di grazia.
Tra loro prendeva a parlare Polite, capo di uomini, che mi era il più caro e il più fidato dei compagni. Diceva: ‘Amici, dentro c’è una che tesse una grande tela e canta con bella voce: tutta la campagna ne risuona. O è una dea, o è una donna mortale. Via, mandiamo un grido subito!’
Così parlò. Ed essi con un grido la chiamavano.
Ella ben presto uscì aprendo i lucidi battenti della porta, e li invitava dentro. Ed essi tutti insieme nella loro semplicità la seguivano. Ma Euriloco non si mosse, ebbe il sospetto che ci fosse un inganno.
Li faceva entrare. Li mise a sedere sulle sedie e sugli alti seggi. E per loro mescolava formaggio e farina d’orzo e miele verde con vino di Prammo, e univa a quel cibo droghe malefiche: voleva che si scordassero completamente della patria.
E dopo che glielo diede ed essi l’ebbero così bevuto, subito poi li colpiva con la sua verga e li chiudeva nei porcili. Ed essi avevano, dei maiali, le teste e la voce, le setole e l’aspetto, ma la mente era immutata, come prima.
Così stavano rinchiusi e piangevano. A loro Circe gettò innanzi ghianda di leccio e ghianda di quercia e il frutto del corniolo, da mangiare: sono i cibi consueti dei porci che si sdraiano a terra.
Euriloco giunse ben presto alla nave a dire la novità riguardo ai compagni e l’amaro destino che era loro toccato. Ma non poteva pronunciare neppure una parola, benché lo desiderasse e volesse, colto com’era da grande dolore. Gli occhi gli si riempivano di lacrime, dentro di sé non pensava che a piangere.
Ma quando tutti noi stupiti lo interrogammo, allora finalmente raccontò la morte degli altri compagni. Diceva: ‘Andavamo, come tu comandavi, Odisseo, su per le boscaglie. Trovammo nelle valli un bel palazzo costruito con pietre lisce, in un luogo isolato. Là c’era una che tesseva una grande tela e cantava ad alta voce: una dea o donna mortale. E i compagni con un grido la chiamarono. Ella ben presto uscì aprendo i battenti della porta, e li invitava dentro. Ed essi tutti insieme nella loro semplicità la seguirono. Ma io non mi mossi: ebbi il sospetto che ci fosse un inganno. Sparirono tutti insieme, nessuno di loro comparve più. A lungo io sedevo là e spiavo.’
Così diceva. Ed io mi cinsi all’omero la spada dalle borchie d’argento – era una grande spada di bronzo – e mi misi l’arco in spalla. E a lui ordinai di condurmi indietro per la stessa strada.
Ma egli mi prendeva le ginocchia con tutte e due le mani, mi supplicava, e con voce di pianto mi rivolgeva parole: ‘Non menarmi là contro voglia, o discendente di Zeus, ma lasciami qui! So che neppure tu farai ritorno indietro e non riuscirai a condurre via alcun altro dei tuoi compagni. Ma con questi qui, subito, scappiamo! Possiamo ancora sfuggire al giorno funesto.’
Così parlava. Ed io gli rispondevo e dissi: ‘Euriloco, tu sta’ pure qui, in questo luogo, a mangiare e bere, accanto alla nave. Ma io andrò: ne ho un’imperiosa necessità.’
Così dicevo. E dal mare salivo verso l’interno.
Ma quando camminando per le sacre valli stavo per giungere alla casa della maga Circe, allora mi si fece incontro Ermes dalla verga d’oro. Somigliava ad un giovinetto al quale spunta la prima barba, e la cui adolescenza è piena di grazia.
Mi prese per mano, si rivolgeva a me e disse: ‘Dove vai, infelice, per queste alture da solo, ignaro come sei del luogo? I tuoi compagni qui stanno rinchiusi nel palazzo di Circe, come porci, e occupano solide stalle. Vai forse là per liberarli? Neppure tu, te lo dico, farai ritorno, ma resterai invece dove sono gli altri. Ma via, io ti voglio liberar dai guai e salvare. To’, con questo farmaco benigno vai dentro il palazzo di Circe. Ti preparerà un beveraggio, ci metterà dentro delle droghe: ma neppure così riuscirà a stregarti. Non lo permetterà il farmaco che intendo darti: e ti dirò anche ogni cosa che devi fare. Quando Circe ti percuoterà con la sua lunghissima verga, tu traiti dal fianco la spada e avventati contro di lei, come se volessi ucciderla. Ella t’inviterà, spaurita, a giacere con lei. Allora tu non rifiutare il letto della dea, se vuoi che ti liberi i compagni e ti accolga ospitalmente: ma imponile di giurare il solenne giuramento degli dei beati, che non vorrà a tuo danno tramare qualche altra sventura. Eviterai che, una volta spogliato, ti renda vile e imbelle.’
Così parlava l’Argicida, e mi diede l’erba che aveva strappato dalla terra, e mi mostrò com’era fatta: era nera nella radice, bianco come latte il fiore. Moli la chiamavano gli dei. Ma è difficile per gli uomini mortali trarla fuori dal terreno scavando: gli dei invece possono tutto.
Ermes poi se n’andò su per l’isola selvosa all’alto Olimpo: ed io camminavo verso la casa di Circe e il cuore nell’andare mi batteva forte.
Mi fermai alla porta della dea dalle belle chiome. E là diedi un grido: la dea udì la mia voce.
Ella ben presto uscì aprendo i lucidi battenti e m’invitava dentro. Io la seguivo rattristato.
Mi fece entrare, mi mise a sedere su di un seggio dalle borchie d’argento: era bellissimo, lavorato con arte. E sotto, per i piedi, c’era uno sgabello.
Mi preparava il beveraggio in una coppa d’oro; e dentro ci mise una droga, meditando la mia rovina.
E dopo che me lo diede e io l’ebbi bevuto – e non mi stregò – mi colpiva con la sua verga, si volgeva a me e disse: ‘Va’ ora nel porcile e coricati in mezzo agli altri compagni!’
Così diceva. Ed io mi trassi dal fianco la spada acuta e m’avventai contro Circe come se volessi ucciderla.
Lei gridava forte e corse di sotto e mi abbracciò le ginocchia, e con voce di pianto mi rivolgeva parole: ‘Qual è il tuo nome? Di che paese sei? Dove hai la città e la famiglia? Sono qui piena di stupore: a bere queste droghe, tu non rimanesti stregato. Nessun altro uomo tollerò queste droghe, a berle, non appena gli passarono in gola. È in te una mente che non si lascia affascinare. Certo tu sei Odisseo. E sempre mi andava dicendo l’Argicida dalla verga d’oro che saresti venuto qui, al ritorno da Troia con la nave. Ma via, riponi la spada nella guaina e noi due poi saliamo sul nostro letto. Uniti in amore, avremo fiducia l’uno nell’altro.’
Così parlava. Ed io le risposi: ‘O Circe, ma come! M’inviti a essere buono con te, tu che mi hai reso porci nella sala i compagni e mi trattieni qui meditando un inganno e mi dici di venire in camera e di salire nel tuo letto per rendermi così, una volta spogliato, vile e imbelle! Ma non intendo salire sul tuo letto, a meno che tu non consenta, o dea, a farmi un solenne giuramento, che non vorrai a mio danno tramare qualche altra sventura.’
Così dissi. E lei subito giurava come volevo.”